L’uomo di cavalli ha generato una nuova figura equestre e una mini rivoluzione socio-culturale distinguendosi per il suo nuovo modo di “vivere” il cavallo.
Per definizione, “uomo di cavalli”, è colui che è in grado di valutare ogni cavallo e comprenderne il suo carattere. È un interprete capace di leggere in ogni singolo soggetto le condizioni fisiche e gli stati emotivi, di intuirne esigenze e desideri e di sviluppare un programma di lavoro graduale nel rispetto della natura e delle caratteristiche dello specifico esemplare.
La figura dell’uomo di cavalli apparve per la prima volta nel corso del diciannovesimo secolo. Non si trattava solo di un nuovo tipo di cavaliere, egli rappresentava una nuova figura sociale che segnava una netta rottura con l’aristocrazia. Il suo avvento modificò il modo di intendere le attività equestri che cessarono di essere un privilegio di nascita.
In questa mini rivoluzione culturale e sociale, l’uomo di cavalli incarna i valori borghesi del lavoro, della competenza e dell’economia. Egli conosce i cavalli, li monta, li addestra, studia la loro anatomia e osserva il loro comportamento. Inoltre li cura con attenzione e li salvaguarda nel pieno rispetto dell’adagio che “chi va piano va sano e va lontano“.
Tale modo di fare lo differenzia dall’aristocratico che, invece, utilizzava il cavallo sono come piedistallo per la propria personalità, un trono a sua misura, che lo sollevava fisicamente al di sopra della massa. L’uomo di cavalli trascorre più tempo in sella che nei salotti; è più interessato a gestire la sua scuderia che la sua casa, rispetta il cavallo e non lo usa per dare lustro a se stesso. Tuttavia, cura il suo aspetto, sempre raffinato ed elegante.
L’espressione “uomo di cavalli” è entrata nel vocabolario già nel diciannovesimo secolo. Jules Pellier, maestro di equitazione, dà la prima definizione completa nel suo libro Le langage équestre, pubblicato nel 1900. Più di recente, lo scrittore e giornalista Jérôme Garcin, nel 1998, in La Chute de cheval, riporta la sua definizione:
Nell’uomo di cavalli, si fonde la figura di un aristocratico senza un soldo e quella di un contadino acculturato, non si esalta da solo, non fa mai gesti improvvisi ed è cauto. Se si esprime, lo fa tramite litòti e preterizioni. Non è un chiaccherone, è un osservatore.
I criteri per diventare “uomo di cavalli” rivelano, però, una segregazione orizzontale: le donne non hanno il diritto di entrare in una sfera maschile che è chiaramente dominante. Non esiste, infatti, alcuna “donna di cavalli” riconosciuta in quanto tale, nonostante amazzoni e note écuyères segnino il secolo.
L’uomo di cavalli rompe con l’aristocrazia, si mescola con il popolo; non è più il potere della nobiltà o l’eredità di sangue che lo distinguono, ma un modo di essere, una singolare relazione con il cavallo, rivolta completamente alla sua conoscenza e al suo rispetto.
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