Clever Hans

(La Stampa Del 4/4/2005 Sezione: Cultura Pag. 36 – Mario Baudino)

Così l’interrogante influenza l’interrogato: un ammonimento per tutti i sondaggisti

ALL’INIZIO del Novecento un cavallo pitagorico mise in crisi i dotti, gli specialisti e soprattutto gli alfieri della psicologia sperimentale, che aveva mosso i primi passi. Hans, detto Clever Hans, il furbone, sapeva far di conto, riconoscere i colori, comporre parole sensate battendo con lo zoccolo su una tastiera, rispondere a domande neppure troppo semplici. Sembrava proprio uno di quei loquaci destrieri dei poemi epici, è stato l’antesignano e forse l’ispiratore dei film della serie Francis, il mulo parlante; anzi nella fattispecie gli mancava solo la parola. Per il resto, pareva dotato di una intelligenza autonoma e creativa, proprio come un umano. E dato che allora – come ora – spiritismo, parapsicologia, dottrine orientali variamente reinterpretate, magie e stregonerie godevano di un buon successo, la sua storia mandò in visibilio i giornali, i circoli intellettuali e i buoni borghesi della Belle Epoque, già estasiati da cani che sapevano giocare a domino, maiali in grado di far di conto, medium, guru e maghi. Fu presa molto sul serio anche da uno stimato ricercatore, che ne venne a capo con una spiegazione altamente razionale. E da allora Hans, il cavallo sapiente di Berlino, compare in tutti i manuali di psicologia, magari per poche righe, come una sorta di ammonizione. Che dice: state attenti a non ripetere quel celebre errore. Ovvero state attenti all’influenza inavvertita che nei colloqui e negli esperimenti chi interroga ha sull’interrogato. Il problema è molto vasto, perché interessa sicuramente anche coloro che conducono sondaggi d’opinione, o chi esamina un candidato per un lavoro o per un esame, per non parlare dei rapporti tra i sessi. Vasto, e attuale. Tanto che una studiosa belga, Vinciane Despret (insegna filosofia della psicologia a Liegi e etologia delle società animali a Bruxelles) ha deciso di riesaminarla a fondo, quella vecchia storia, raccontandola in un libro appena uscito per l’editrice Elèuthera (Hans, il cavallo che sapeva contare, pp. 111, euro 11) con una divertente postfazione di Giorgio Celli. Divertente – e vagamente inquietante – è però tutta la vicenda, a metà strada tra un romanzo mitteleuropeo e una fantasia alla Queneau. Hans forse non sapeva contare, ma a distanza di cent’anni sono proprio i conti che, alla fin fine, non tornano completamente. Tutto cominciò il 7 luglio 1904, quando un giornale, il Welspiegel, dette l’annuncio che un ex professore di matematica in un liceo di Berlino, il signor Wilhelm van Osten, era riuscito a insegnare al suo cavallo – con metodi tradizionali, più o meno come faceva con i suoi alunni – non solo le operazioni più semplici, ma anche a estrarre radici quadrate e identificare i fattori primi di un numero; oltre che a riconoscere le note musicali e trovare le dissonanze in una melodia, individuare persone precedentemente mostrategli in fotografia, fare segni di affermazione o diniego con la testa, distinguere i colori. Subito nel cortile di casa sua, dove Hans veniva fatto esibire, si assieparono folle debordanti. Il clamore e le polemiche furono tali che l’ex professore chiese una perizia al Consiglio per l’educazione di Berlino, che nominò una commissione. I risultati furono straordinari: il cavallo rispondeva alle domande battendo lo zoccolo, risolveva problemi, insomma comunicava benissimo con gli umani, giungendo fino a correggere qualche loro lapsus, senza che si riuscissero a scoprire inganni illusionistici o trucchi di addestramento. Solo una nuova tornata di esperimenti, condotti dallo psicologo Oskar Pfungst, sarebbe riuscita infine a proporre un’interpretazione del fenomeno, che è quella largamente accettata anche oggi. Usando strumenti di precisione e conducendo le prove in modo molto rigoroso, Pfungst scoprì infatti che Clever Hans era solo molto, molto attento, e usava benissimo la vista, comportamento peraltro inusuale nei cavalli: le sue risposte erano «guidate» da movimenti impercettibili e involontari, prodotti dalla concentrazione, dalla tensione o anche normalmente dall’espressione di chi lo interrogava. Lo dimostrò in un libro divenuto celebre, con l’ovvio apparato di tavole, elenchi di risultati, comparazione. E per buona misura replicò gli stessi esperimenti, mettendosi lui al posto del cavallo, facendosi rivolgere domande di cui non conosceva la risposta, e trovandola ogni volta grazie all’osservazione molto attenta di chi lo interrogava. Tutto a posto, dunque? «Clever Pfungst» ha spiegato Clever Hans? Forse sì, forse no, risponde a distanza di un secolo la studiosa belga. Perché ormai sappiamo che sì, l’interrogante modifica e influenza l’interrogato, ma proprio per questo non siamo in grado di dire come fosse veramente la situazione dell’interrogato prima che appunto venisse modificata. E poi, siamo sicuri che molti movimenti involontari non li abbia «insegnati» Hans ai suoi esaminatori? Che l’esaminato non abbia a sua volta influenzato gli esaminatori? La faccenda si complica terribilmente, e diventa molto «tecnica». Quel che è certo, è che il cavallo alla fine degli esperimenti andò un po’ in crisi, non era più il bel cervellone di prima, era diventato molto meccanico nelle sue risposte. Come tutte le star mediatiche conobbe un periodo di oscuramento, venne persino venduto da Van Osten, che si sentiva deluso. Triste fine? Niente affatto. Lontano dal clamore, con un nuovo proprietario, sappiamo dalla Despret che riprese a esibirsi con ottimo successo, e non da solo. Insieme con lui, a fargli da spalla, comparvero altri due destrieri, Mohammed e Zarif. Uno specializzato in aritmetica, l’altro nel comporre parole. Nel tentativo di smentire lo psicologo, pare che riuscirono a rispondere correttamente anche al buio. Pitagorici, sapienti, e un po’ burloni.

Mario Baudino

 

http://www.eleuthera.it/files/Despret3_Stampa_20050404.pdfclever_hans

 
 
 

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