Due bizzarrie acquatiche senza le quali il Salento non sarebbe Salento. […]
Allora eccomi per tre giorni di nuovo nel Salento, a fine estate, e con la voglia matta di intrufolarmi a piedi o a cavallo, al passo e al trotto, tra la vegetazione degli Alimini. C’era anche la prospettiva di una galoppata sulla spiaggia finalmente liberata da ombrelloni, sdraio, e oleozzi di creme solari, spazzati via dalle brezze d’autunno. Scalpitavo all’idea di cominciare il mio vagabondare. Cominciai con Butterfly, giovane cavalla, pezzata, e meno male, tranquilla. Quando si monta dopo tanto tempo, mente, cuore e gambe auspicano un equino pacioso. Tale era Butterfly e negli occhi manifestava mansuetudine e nessuna intenzione di trasformarsi all’improvviso in una scimmia dispettosa. Il primo tratto lo percorremmo tra oliveti intervallati da brevi filari di eucalipto.
Un itinerario su terreno piatto, senza infamia e senza lode, come quando raccogli un fico d’India immaginando chissà quale scrigno sia di zuccheri e colori e invece è acquetta. Alcune parti del tratturo erano persino asfaltate e gli zoccoli producevano un fastidioso clop clop metallico, autostradale. Di tanto in tanto, Lucio si torceva sulla sella e con sguardo beffardo sembrava indurmi alla pazienza perché presto me ne avrebbe fatte vedere delle belle. La promessa fu annunciata dal terreno più ondulato, dai cespugli di macchia più fitti tra gli olivi e dal profilo del bosco attorno ad Alimini Grande. Butterfly sembrava farsi più vivace, così come l’aria s’arricchì di afrori resinosi e salmastri.
Fagocitati dal bosco, gli zoccoli dei cavalli affondavano in nuvolette di foglie marce e fango. S’alzarono folate di muschi mentre percorrevamo una galleria tra tronchi e rami di pino e di acacie ammantati di edera. Dovevamo spesso piegarci sulla sella per evitare zuccate. Si lavorava di redini per non urtare le ginocchia contro un pino. Passavamo in un cunicolo vegetale buio, perché il cielo era sulle chiome degli alberi, garzaie di aironi e gabbiani. […]
Il lago si rivelò nella sua plasticità. E fu come se Butterfly, fendendo le ultime cortine di canne palustri, aprisse un sipario. Si alzarono nuvolette di moscerini e zanzare. A riva gli zoccoli della cavalla sprofondarono nella melma e, rimestandola come un frullatore, colorarono l’acqua di verdi e fangose putredini. Cavalcammo a qualche metro dalla riva lasciandoci avvolgere dall’affascino di Alimini Grande. L’acqua, ora limpida, ci arrivò agli stivali, vi si infilò tiepida, salì alle ginocchia. Non c’era altra strada se non quella di passare a guado un tratto di lago e raggiungere a riva un tratturo percorrendo il quale si tornava alla scuderia di Lucio.
Mi stava bene guazzare in quell’acqua brodosa per i tepori assorbiti dal’estate trascorsa e nell’attesa di eventi autunnali annunciati dallo specchiarsi di cumuli di nubi sul lago. Al primo colpo di brezza carica di afrori salmastri, l’acqua si increspò. Come in un concerto, gli strumenti erano lo sciabordio, i tonfi degli zoccoli, il sibilo degli schizzi, il gracidio delle rane, l’ansare del canneto, i versi degli uccelli sui rami o nascosti tra le piante palustri. […]
La sera, sui bastioni di Otranto, suonavano, cantavano e affascinavano i tamburellisti di Torre Paduli. Al ricordo dei loro ritmi salentini, il giorno dopo andai al galoppo sulla spiaggia incoronata da dune e macchie. Mi lascia avvolgere dalla spruzzaglia di mare sollevata dagli zoccoli di Butterfly. E allora! Un brindisi al Salento che mi ha insegnato Lucio: «Viva i nostri cavalli, viva le nostre donne. Evviva la cavalleria».
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