Cavallo o genio dell’aritmetica?
■ di GIANNA MILANO
L’ 1 e il 12 settembre 1904 nella corte di un edificio di via Griebenow, a Berlino, eminenti personalità dalle competenze più disparate si riuniscono per ore. Compito dell’improvvisata giuria è valutare le singolari capacità di un certo Hans. Tra i giudicanti, Cari Stumpf, direttore dell’Istituto di psicologia, Ludwick Heek
che dirige il giardino zoologico, e il professor Nagel, del dipartimento di fisiologia dei sensi all’Università di Berlino. Le prove cui è sottoposto Hans durano due giorni. Gli verrà chiesto di comporre parole, risolvere problemi aritmetici, riconoscere colori, carte da gioco, ricordare la data del giorno e quella del venerdì dopo. Per rispondere alle domande incalzanti l’esaminato batterà dei colpi sul suolo. Sì, perché Hans è un cavallo.
E Wilhelm von Osten, il suo padrone, già professore di matematica al liceo di Berlino, lo ha addestrato per quattro anni facendone un allievo modello.
La storia del valente o furbo cavallo, celebre come Clever Hans, è rivisitata in un avvincente saggio, Hans, il cavallo che sapeva contare (Elèuthera) di Vinciane Despret, docente di filosofia della psicologia a Bruxelles ed etologa. Ora liquidata come frode, altre volte come fenomeno di telepatia, o come dimostrazione dell’intelligenza animale, la vicenda di Hans costituisce una delle più accese controversie scientifiche e parascientifiche dell’epoca. I membri della commissione quel settembre 1904 ottengono risposte corrette
da Hans, e concludono: «Non può trattarsi di inganno, né trucco di addestramento al momento noto». Ma non giungono ad affermare che il cavallo sia dotato di un’intelligenza concettuale. Quella sfumatura prudente, «al momento noto», non mette al riparo i membri della commissione e quando il rapporto viene
pubblicato la controversia si riaccende. E se si trattasse non di intelligenza concettuale bensì di transfert del pensiero? Le spiegazioni più diverse e immaginifiche alimentano il dibattito. Il cavallo riceverebbe segnali sotto forma di onde, altri invocano l’influenza magnetica, o l’ipotesi che il calore del corpo di chi pone le domande si convertirebbe in stimoli elettrici che passano attraverso il suolo, raggiungendo gli zoccoli del cavallo. Altre indagini e rapporti sulle doti di Clever Hans si succedono, con le prove in «doppio cieco» in cui l’interrogante e chi riceve la risposta non sono la stessa persona, e il secondo ignora ciò che il primo chiede al cavallo. Finché entra in scena Oskar Pfungst e Hans entra nella storia della psicologia sperimentale. «Quattro anni di lavoro per verificare se il cavallo è dotato di genio matematico o sa cosa passa per la testa di chi lo interroga» scrive Despret. La questione dell’intelligenza concettuale non è più centrale. «Hans è coinvolto in un’altra storia: parteciperà d’ora in poi alla razionalizzazione dei fenomeni paranormali». Ma quali sono i suoi poteri straordinari? È davvero capace di leggere nel pensiero oppure capta movimenti microscopici di chi gli sta di fronte, ossia è capace di «leggere i corpi»? Scrive l’etologo Giorgio Celli nella
postfazione al libro: «Hans resta un giallo etologico e il Marlowe di turno deve ancora dare bancarotta». Quando il signor von Osten lo recuperò dopo gli esperimenti con Pfungst, lo vendette a un mercante, un certo Karl Krall.
La sua fama era andata scemando, ma Hans ritrovò presto la gloria. E non rimase solo. Krall comprò altri due cavalli, Mohammed e Zarif, che ricevettero un’educazione simile al compagno. Uno specializzato in aritmetica, l’altro nel comporre le parole. Ci furono ancora controversie, non così vivaci. «Krall sì impegnò a dimostrare che Pfungst aveva sbagliato: ai cavalli fu chiesto di rispondere nell’oscurità, cosa che non sembrò influire sulle loro performace» scrive Despret. È doveroso concludere, dice Celli, che se tutta la perizia degli animali sapienti si è fondata non sull’esibizione di capacità mentali ma su uno scambio di segnali, i protagonisti a quattro zampe hanno comunque dato prova di un’intelligenza straordinaria, imparando un codice di comunicazione di tale sottigliezza da sfuggire alla percezione non solo dell’uomo della strada ma dello scienziato. Una beffa scientifica? «Se fosse, è stata pedagogica, nel senso che gli etologi, e forse non solo loro, ne dovranno sempre tener conto» conclude Celli.
12/5/2005 Panorama