Quando si parla di equitazione in Italia, spesso si parte da nomi noti come Caprilli o dai successi sportivi del Novecento. Ma la vera storia dell’equitazione italiana affonda le radici molto più indietro, in un passato che ha visto scontri culturali, rivoluzioni tecniche e l’estinzione di tradizioni secolari.
Dopo l’Unità d’Italia nel 1861, anche il mondo equestre ha vissuto un processo di centralizzazione forzata. Il Nord, in particolare il Piemonte, ha imposto il proprio modello di equitazione militare, spazzando via realtà e scuole che nel Regno delle Due Sicilie avevano secoli di storia. La scuola napoletana, una delle più raffinate in Europa, ha subito un vero e proprio blackout: documenti spariti, maestri ignorati, tecniche dimenticate. Era una scuola colta, erede diretta del Rinascimento italiano, con nomi come Pignatelli e Fiaschi, conosciuti e rispettati anche oltreconfine.
Con la nascita del nuovo Stato italiano, l’equitazione militare assume un ruolo centrale nella definizione della nuova scuola di cavalleria. Il centro più importante diventa la scuola di Pinerolo, nata ufficialmente nel 1862, che eredita fortemente la tradizione austro-tedesca. Gli ufficiali italiani vengono formati guardando alla Prussia e all’Austria: la tecnica viene da lì, i manuali anche.
Uno dei nomi chiave di questo passaggio è Cesare Paderni, maestro di Federico Caprilli e promotore di una visione più dinamica dell’equitazione. Da Pinerolo parte l’idea che la cavalleria debba essere rapida, mobile, capace di affrontare ostacoli e terreni vari. Non più alta scuola e duelli, ma sortite veloci, esplorazione, resistenza. Il concetto di equitazione militare cambia pelle.
Caprilli, ufficiale di cavalleria, porta alle estreme conseguenze questa nuova visione. Osservando il cavallo in natura, cambia tutto: l’assetto del cavaliere, il modo di saltare, il concetto stesso di aiuto. Nasce così il “sistema naturale”, una rivoluzione che l’Italia esporta in tutto il mondo e che diventa la base del salto ostacoli moderno.
Ma questa rivoluzione ha un prezzo. Il lavoro in piano, il dressage, la cosiddetta “scuola”, viene considerato inutile, se non dannoso. L’equitazione militare italiana abbandona tutto ciò che non sia funzionale al campo di battaglia o alla campagna. Il dressage viene demonizzato, dimenticato.
Proprio per questo, negli anni Cinquanta e Sessanta, figure come Domenico Susanna emergono come eccezioni. Susanna, cavaliere di completo e poi di dressage, è tra i pochi che provano a ricucire il rapporto tra scuola e sport, tra tecnica e sensibilità. I suoi libri (come Il perfetto cavaliere o Esperienze equestri) sono tra i primi a parlare seriamente di dressage moderno in Italia, ispirandosi alla scuola tedesca ma mantenendo uno spirito profondamente italiano.
Purtroppo, come spesso accade, la sua figura è stata marginalizzata. E la sua fine tragica — il suicidio dopo la morte del suo cavallo — aggiunge una nota drammatica a una carriera che avrebbe meritato più attenzione.
La storia dell’equitazione italiana non è solo Caprilli. È una storia complessa, fatta di grandi maestri, di guerre culturali e tecniche, di perdite e rinascite. Ed è importante raccontarla per intero, anche nelle sue parti più scomode, per capire davvero da dove veniamo e dove possiamo andare.
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